In futuro più lavoro remoto. Va ripensata la produttività
La “nuova normalità” nelle aziende sarà caratterizzata da un approccio «flessibile e ibrido» secondo Alain Dehaze, che dal suo osservatorio privilegiato di Ceo globale di The Adecco Group, è in grado di analizzare i cambiamenti in atto nel mercato del lavoro con una prospettiva a 360 gradi. «Siamo in presenza di una radicale trasformazione del modo di lavorare - spiega-. Si lavorerà il 50% in ufficio e il 50% da remoto. Ovviamente dipende dal settore produttivo, mi riferisco a chi può lavorare da remoto, come i lavoratori della conoscenza, non alle linee di assemblaggio nell’industria manifatturiera. Questa percentuale “50/50” è gradita a circa il 75% dei lavoratori e manager coinvolti in uno studio condotto tra 8mila persone di 8 grandi paesi, come gli Stati Uniti, la Germania, l’Italia, la Gran Bretagna e la Francia. Insieme alla maggiore flessibilità, va, però, ridefinito un aspetto importante: come si misura la produttività, oggi legata al numero di ore passate in ufficio. In una situazione “ibrida” occorre stabilire come valutare la produttività e valorizzarla. Oltre il 69% dei lavoratori e il 76% dei manager intervistati chiedono che venga valutato l’impatto della performance sul lavoro, piuttosto che la pura presenza in ufficio». Sono queste le tendenze che secondo Alain Dehaze caratterizzeranno la nuova normalità, la cosiddetta «terza fase di trasformazione - preceduta dalla prima fase d’emergenza e dall’attuale seconda fase di ripresa-, che inizierà presumibilmente nell’autunno del 2021, quando l’epidemia sarà sotto controllo perché sarà disponibile il vaccino anti Covid 19».
L’ampio ricorso al lavoro da remoto in questi mesi ha evidenziato una serie di criticità: «Il 28% dei lavoratori intervistati ha dichiarato di aver sofferto problemi mentali a causa dell’isolamento durante il lockdown - aggiunge il Ceo -, solo un manager su 10 ha superato le aspettative dei dipendenti per aver fornito un reale sostegno alla forza lavoro. Molte aziende non erano abituate a lavorare da remoto, non ci sono molti manager formati per coinvolgere forza lavoro che lavora da remoto, inoltre non tutti sono in grado di comunicare digitalmente. Sono carenze da colmare. La formazione è un fattore decisivo. Sei dipendenti su dieci hanno detto di aver migliorato le proprie competenze digitali, uno su tre si è dichiarato pronto a cambiare lavoro se potrà acquisire nuove competenze. Un altro aspetto interessante riguarda le aziende che durante l’emergenza hanno ispirato fiducia, l’88% delle persone intervistate ha detto che i datori di lavoro hanno soddisfatto le loro aspettative, per l’80% le imprese si sono adattate meglio di governi e sindacati».
Dehaze racconta come è stata gestita l’emergenza Covid dal gruppo leader mondiale dei servizi dedicati alla gestione delle risorse umane con 35mila dipendenti diretti sparsi tra 5mila uffici di 60 Paesi (3mila dipendenti in Italia, con 400 sedi che danno lavoro ogni settimana a 45mila lavoratori, di cui 18mila a tempo indeterminato). «Da fine marzo a giugno, nella prima fase dell’emergenza Covid più del 90% dei dipendenti ha lavorato da remoto, significa 34mila persone- aggiunge-, fortunatamente avevamo investito sulle infrastrutture digitali per assicurare la continuità del lavoro. Ora siamo entrati nella seconda fase, quella della ripresa, la gran parte delle aziende sono ripartite anche se non in tutti i settori, circa il 40% dei dipendenti continua a lavorare da remoto attraverso un meccanismo di rotazione settimanale o ogni due settimane, per assicurare il distanziamento sociale, a seconda delle legislazioni locali».
L’emergenza Covid sta accelerando il processo di digitalizzazione dei processi produttivi, milioni di posti di lavoro al mondo sono messi a rischio non solo dalla crisi legata alla pandemia, ma anche per la progressiva automazione. «Per affrontare la sfida della digitalizzazione è decisivo che le imprese prevedano percorsi di upskilling e reskilling per i propri dipendenti e manager che vanno aiutati a riqualificarsi all’interno dell’azienda o a trovare fuori un lavoro simile a quello che stanno già facendo. C’è una domanda crescente di formazione, non a caso durante il lockdown in 300mila si sono iscritti ai corsi gratuiti che abbiamo organizzato i venerdì per migliorare le competenze digitali. Servono nuove competenze, anche sul versante della green economy. Penso ad un mercato come l’automotive, in Germania uno studio sulle più grandi compagnie automobilistiche evidenzia che stanno licenziando 27mila lavoratori, ed assumendo allo stesso tempo 9mila persone, ingegneri, specialisti. Per produrre macchina elettriche c’è bisogno di meno personale rispetto alle macchine tradizionali, ma servono competenze diverse. Nel lungo periodo sono ottimista, non dovremmo avere aumento disoccupazione, la vera sfida è la sincronizzazione tra posti di lavoro creati e distrutti».
In tema di competenze richieste, Dehaze sottolinea che accanto alle «hard skills, ovvero la conoscenza di programmi digitali, l’ottimizzazione dei motori ricerca, gli algoritmi, machine learning, la gestione dei dati, nel mercato del lavoro che sta cambiando saranno sempre più richieste le soft skills, ovvero l’intelligenza emotiva, la capacità di lavorare in gruppo, di adattarsi ad un ambiente multiculturale, la creatività visto che con la progressiva automazione i lavori ripetitivi saranno sostituiti dalla macchina».
Anche in Italia è destinato a crescere enormemente il peso della “digital trasformation” e dell’ecosostenibilità che, secondo le stime di The Adecco group coinvolgeranno tra il 26% e il 29% dei lavoratori di cui ci sarà bisogno nei prossimi 5 anni. Le imprese digitali cercheranno tra i 210 mila e 267mila lavoratori con specifiche competenze matematiche e informatiche per i lavori digitali. Quanto all’Ecosostenibilità, da 480mila a 600mila lavoratori saranno ricercati dalle imprese per cogliere al meglio le opportunità offerte dall’economia circolare, orientando nuovamente i propri processi produttivi verso i principali Green jobs. Sempre in Italia ci sono da coprire entro il 2023 ben 400mila posti nei settori della sanità e dell’assistenza sociale, 200mila nell’istruzione e nei settori formativi, 90mila nell’industria dei macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto.
«Nei 4 mesi di lockdown - continua il Ceo - in Italia sono esplose le richieste per settori come la sanità medicale, l’alimentare, la sicurezza, la logistica e la distribuzione. In settori che si sono ridotti in modo drastico come quello dell’ospitalità, dell’accoglienza e degli eventi stiamo riqualificando il personale per indirizzarlo verso altri settori in cui c’è una domanda crescente, come il cleaning e la sanificazione». Per colmare il mismatch di competenze Mylia e Adecco, due brand di The Adecco Group, lo scorso marzo hanno avviato un piano formativo straordinario focalizzato sulla digitalizzazione che nel triennio 2020-22 formerà 17mila professionisti che lavorano nelle imprese di tutta Italia, assunti direttamente da Adecco a tempo indeterminato, con un milione di ore di formazione su temi come la digital trasformation, e-commerce, social network, cyber security. Inoltre, con un investimento di oltre 6 milioni di euro è stata realizzata una piattaforma digitale ed un nuovo spazio, una sorta di palestra di oltre mille metri quadrati, Phyd Hub in via Tortona a Milano, dedicato a percorsi di upskilling e reskilling per studenti, professionisti e imprese. «Un algoritmo effettua un check up per fornire un indice di occupabilità di ogni persona - spiega Dehaze-, in modo da indirizzare ogni individuo, in base alle proprie aspirazioni e competenze verso le reali esigenze del mercato. Partendo dalle competenze acquisite, si può lavorare per migliorarle, per accrecere l’occupabilità. Anpal e i responsabili dei centri per l’impiego sono interessati all’algoritmo, stiamo dialogando per metterlo a disposizione».
C’è apprensione per l’impatto che avrà, a fine dicembre, la fine del blocco dei licenziamenti deciso dal governo Conte a partire dal mese di marzo: «Non dobbiamo proteggere il posto di lavoro ma investire e per migliorare l’occupabilità delle persone - è il messaggio di Dehaze-. Non possiamo obbligare l’azienda a non licenziare se c’è una diminuzione di attività, perché poi rischia di fallire. Ogni Paese ha centinaia di migliaia di posti vacanti perché non si trovano i profili giusti. Si investa, piuttosto, su un piano massiccio di upskilling e reskilling».
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